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Bergamo

Diversamente da altri luoghi, a Bergamo il ’69 non è il culmine di una protesta iniziata l’anno precedente. La classe lavoratrice bergamasca, spesso ancora legata alla cultura contadina, fatica ad assorbire le novità delle avanguardie di fabbrica e resta stretta nella morsa dei bassi salari, del doppio lavoro, del lavoro a domicilio e del pendolarismo verso Milano. Lo scenario del lavoro è assai frastagliato: poche grandi fabbriche, molte piccole e medie aziende, un contesto in cui i sindacati interpretano con difficoltà le innovazioni del processo produttivo, uscendo sconfitti dalle ristrutturazioni degli anni precedenti.

Il ’69 operaio, tuttavia, rappresenta il momento in cui il sindacato, e in particolare la Fiom di Bergamo, procede a un riassetto della propria struttura interna. L’ingresso in fabbrica di una nuova generazione di lavoratori mette in discussione lo status quo, esprime una critica radicale al verticismo dell’organizzazione sindacale e, dunque, allo statuto delle Commissioni interne, a cui – poco a poco – si sostituiscono Comitati di lotta spontanei e, successivamente, i Consigli di fabbrica.

Le dirigenze sindacali diventano protagoniste di un grande cambiamento dettato dalla capacità di trovare un felice compromesso tra spontaneità e direzione del movimento. Con il contratto del ’69, pagato con centinaia di ore di scioperi e mobilitazioni, cambiano anche i contenuti delle rivendicazioni, non più solo sul salario, ma anche sulle condizioni di lavoro e in particolare sulla salute in fabbrica. I singoli reparti o, meglio, i gruppi omogenei (insiemi di lavoratori sottoposti alle medesime condizioni di nocività) sviluppano un sapere operaio che consente di avanzare richieste sulla limitazione dell’esposizione al rischio, come nel caso della protesta dei lavoratori del reparto araldite (una colla che provoca danni respiratori e cerebrali) della Magrini di Bergamo.

Una svolta epocale che rappresenta dunque l’inizio, e non la fine, di un ciclo espansivo per i lavoratori e le loro organizzazioni: negli anni ’70, infatti, alcune questioni poste dai Consigli di fabbrica bergamaschi – si vedano le vicende della Dalmine e il tema dell’inquadramento unico – serviranno da modello per accordi nazionali.

Ed è ad anni ’70 inoltrati, a partire dalle premesse poste con il ’69, che i lavoratori acquisiscono progressivamente il potere di intervenire sull’organizzazione del lavoro in fabbrica, come alla SAME di Treviglio, dove nel 1978 si firma un accordo che prevede che la struttura produttiva aziendale si cambi solo con il consenso del Consiglio di fabbrica.

Il ’69 è dunque l’avvio di una riscossa dei lavoratori, capaci infine di leggere e interpretare le situazioni del lavoro all’interno della fabbrica intesa nella sua complessità, tanto da poter intervenire in ogni ambito della vita dell’impresa, inclusa – paradossalmente – la gestione del cibo in mensa, come nel 1973 alla Magrini, quando viene chiesta – con un lessico sindacale ormai radicato – l’abolizione delle polpette, piatto a cui si attribuivano frequenti malesseri.

 

Le foto di questa sezione sono conservate nella Biblioteca “Di Vittorio”, Centro di documentazione sindacale – Cgil Bergamo