L’immigrazione
L’arretratezza storica dell’Italia e soprattutto il dualismo originario italiano Nord-Sud, almeno a partire dall’Unità del 1861, comportano varie spinte migratorie (il fattore push). Oltre oceano a fine Ottocento e inizi del Novecento, verso l’Europa centro-settentrionale e da Sud a Nord dal secondo dopoguerra in avanti. L’apice viene raggiunto nel periodo 1958-1963, a opera del cosiddetto miracolo economico italiano, avvenuto soprattutto al Nord – il fattore pull (richiamo).
Complessivamente, alla fine degli anni ‘60, circa 1.637.000 meridionali si spostano al Nord, soprattutto nei grandi centri industriali. E proprio alla fine del decennio Torino diviene la più grande città “meridionale” dopo Napoli e Palermo. Nessuna programmazione, nessun piano, nessuno strumento per regolare questo fenomeno così gravido di conseguenze.
I disagi per gli emigrati-immigrati, dagli alloggi precari all’autosfruttamento per migliorare la propria condizione, al malessere esistenziale (in alcuni casi psichico) a causa dello sradicamento e dell’essere proiettati in una realtà così diversa dalla propria d’origine, sono progressivamente compensati, in alcuni casi e in alcune realtà, da un arricchimento culturale e sociale, dall’acquisizione di capacità politiche e sindacali.
La possibilità offerta, in quel contesto storico italiano, che sfocia nel 1969 e si dilunga per tutti gli anni ‘70, dell’incontro tra sprovveduti, “spontanei”, lavoratori meridionali, alla disperata ricerca di riscatto sociale e lavoratori del Nord, spesso specializzati, sindacalizzati e organizzati, l’incontro insomma tra “Gasparazzo” e “Cipputi”, è una delle chiavi, tra le altre, della radicalizzazione delle lotte di quel particolare, irripetibile per molti versi, periodo storico italiano.